Gli abusi sessuali compiuti nei confronti delle vittime sono considerati degli attacchi diretti alla persona, condannando chi le subisce ad una strategia di silenziamento, subendo una deprivazione di potere. Questi sono aspetti dell’oggettivazione sessuale, ossia la riduzione delle molteplici forme di umanità di un altro individuo ad un’unica dimensione, quella del corpo, che portano la donna ad autosilenziare i propri pensieri e quindi ad auto-oggettivarsi, poiché le vittime si percepiscono come oggetti, privi di voce, e riducono la propria persona al solo aspetto fisico.
Perché le donne, a seguito di violenza, non denunciano l’accaduto ma preferiscono ricorrere al silenzio? Un motivo è che la vittima non “riconosce” di essere stata vittima di aggressione sessuale, confrontando la propria esperienza con i prototipi di stupro riconosciuti nella società, ovvero i “miti dello stupro”.

Con questo concetto ci si riferisce a false credenze riguardo le caratteristiche delle vittime di aggressione, dell’aggressore e del contesto in cui la violenza avviene, riconoscendo quindi come stupri solo i casi estremi. Possiamo riassumere i miti dello stupro in due categorie: la prima riguarda la definizione circoscritta dello stupro e la seconda riguarda il biasimo della vittima. La prima conclude che non è possibile che una violenza venga compiuta in ambito familiare, negando quindi gli stupri con determinate caratteristiche, ma anzi, le donne vittime di abusi “se la sono cercata” attraverso comportamenti inaccettabili nella società e che non assolvono i ruoli tradizionali di genere. La seconda categoria afferma che, spesso, la violenza viene minimizzata poiché la vittima viene rimproverata di essersela cercata a causa del suo abbigliamento oppure, se la vittima nel momento della violenza era ubriaca, vuol dire che era colpa sua. Questo porta la vittima a non denunciare l’accaduto ma ad interiorizzare queste false credenze che la società condivide.
Quando si verificano episodi di stupro, solo il 2% delle vittime denuncia l’accaduto alla polizia, proprio per paura di non essere credute. Nel momento in cui decidono di parlarne con un amico o con un familiare per ricevere supporto emotivo, spesso succede il contrario, ottenendo reazioni negative dal confidente il 39% delle volte, portando la vittima a provare emozioni negative e a sperimentare un malessere psicologico.
Tutto ciò porta ad una sorta di “cerchio di oggettivazione”, nel quale le donne che si auto-oggettivano tendono a concentrarsi sul proprio aspetto e pensano anche che le altre donne lo facciano sia per loro stesse che nei confronti degli altri, e questo succede anche nei confronti delle vittime di violenze sessuali.
Quindi, perché non essere solidali almeno tra noi donne?
Per approfondimenti
Bevens, C. L., Brown, A. L., & Loughnan, S. (2018). The role of self-objectification and women’s blame, sympathy, and support for a rape victim. PLoS one, 13(6), e0199808.
Pacilli, M. G. (2014). Quando le persone diventano cose: corpo e genere come uniche dimensioni di umanità. Il mulino.
Dott.ssa Mina Turi
Laureata in Psicologia dei gruppi, comunità e organizzazioni
minaturi29@gmail.com