Sicuramente una volta nella vita avrete sentito parlare del caso di una donna, Kitty Genovese, e il motivo è legato alla sua morte. Ma, se non sapete chi è, vi racconto ora la sua storia.
Catherine Genovese, soprannominata “Kitty” dai mass-media, era una ragazza americana di 29 anni. Il 13 marzo 1964, alle prime ore del mattino, mentre lascia il bar di cui era direttrice, prende la sua Fiat rossa e si dirige verso casa nella periferia di New York. A due passi da casa, vede una figura avvicinarsi verso di lei: questa figura la stuprerà e la ucciderà. In tutto, la violenza durò ben 32 minuti.
New York non era di certo esente da questi tipi di avvenimenti, ma perché questo caso è passato alla storia? Per un solo motivo, o possiamo dire anche 38 motivi, come il numero di testimoni che hanno osservato l’aggressione nei confronti della donna senza chiamare i soccorsi.
Inizialmente, la spiegazione che fu fornita a questo controverso fenomeno riguardava l’individualismo tipico della società contemporanea, assieme a una perdita di valori e alla svalutazione della sofferenza altrui. Questa argomentazione però non soddisfaceva gli psicologi sociali Statunitensi Bibb Latanè e John Darley, che vollerodare una spiegazione specifica a ciò che era successo.
Gli psicologi capirono che non era indicato studiare i comportamenti dei singoli testimoni, ma bisognava studiarli nella loro totalità, studiare le relazioni e i processi comportamentali instauratesi negli “spettatori”, così individuarono un modello che comprendeva le diverse fasi che intercorrevano tra l’osservazione dell’aggressione e l’attuazione di un’azione.

Queste fasi prevedevano che le persone si sentissero consapevoli di essere spettatori dell’accaduto, di decidere se la situazione richiedesse un aiuto e se fosse il caso di assumersi la responsabilità del soccorso, di decidere il modo in cui intervenire e prendere finalmente la decisione di farlo.
Il punto cruciale di queste fasi fu individuato nella sequenza comportamentale che prevedeva “l’assunzione di responsabilità”.Nasce così l’ “Effetto spettatore” (bystandereffect), che vuole dare un significato all’episodio, individuando il motivo per cui le persone non offrono nessun soccorso di fronte ad un’aggressione se sono in tanti ad essere testimoni del fatto, creando una relazione inversa tra la possibilità di soccorso e il numero di spettatori.
Questo fu confermato da un esperimento condotto dagli psicologiLatanè e Darley nel 1968 alla Columbia University, durante il quale un campionedi ragazzi dell’università veniva portati in una stanza e invitati a compilare un questionario sulle condizioni di vita nelle grandi città, così facendo veniva manipolato il numero dei ragazzi in sala: una persona poteva ritrovarsi da sola o con gli altri. Il risultato mostrò che le risposte al questionario cambiavano, percependo le situazioni come meno pericolose nelcaso in cui la sala fosse piena di gente, inibendo la percezione dell’ambiente e dei pericoli circostanti.
Questo esperimento conferma il fatto che la presenza di altre persone manipola la percezione dell’ambiente esterno e quindi manipola anche le reazioni volontarie. Nel caso di Kitty Genovese, il numero alto di spettatori aveva inibito il comportamento dei singoli, diminuendo la percezione del rischio e pensando che qualcun altro dei presenti chiamasse i soccorsi.
Il processo comportamentale sottostante all’effetto spettatore può essere definito come “apatia degli astanti”, che basa le sue radici sulla diffusione di responsabilità.
Talvolta il comportamento umano può lasciarci perplessi, talvolta è difficile dare una spiegazione a questi tipi di fenomeni che per noi sono razionalmente impensabili, ma l’uomo è un essere complesso e per questo dobbiamo saper imparare a gestire sfaccettature molto diverse tra loro, e soprattutto a non cadere nell’apatia degli astanti anche noi.
Per approfondimenti
https://www.psicosocial.it/kitty-genovese-effetto-spettatore/
https://link.springer.com/chapter/10.1007/978-88-470-1923-2_6
Brown, R. “Psicologia sociale dei gruppi”, Il Mulino, 2000.
Mina Turi
Psicologia dei Gruppi, Comunità e Organizzazioni
minaturi29@gmail.com