Il disturbo depressivo è una condizione psichiatrica altamente invalidante e statisticamente colpisce maggiormente soggetti di sesso femminile, persone in condizioni socio-economiche svantaggiate e anziani. Secondo l’OMS la depressione rappresenta la prima causa di disabilità al mondo. Le stime più ottimiste parlano di una percentuale della popolazione compresa tra il 5 e il 20% che ad un certo punto della vita svilupperà una depressione maggiore invalidante, accompagnata da un successivo ricovero ospedaliero e un periodo significativamente lungo di non funzionalità. In Italia riguarderebbe 3 milioni di persone di cui 1 milione soffrirebbe di depressione maggiore (stime pre-pandemia). La sua incidenza è in aumento da decenni tant’è che si stima che nel 2030 otterrà il primato mondiale delle spese sanitarie, con un costo pari a un trilione di dollari l’anno.
Determinare se vi sia una correlazione tra depressione e deficit cognitivi è complesso, soprattutto nei pazienti geriatrici in cui deficit cognitivi e disturbi dell’umore coesistono frequentemente (un terzo dei pazienti con demenza manifestano un disturbo depressivo, specialmente nelle prime fasi di malattia). Negli ultimi vent’anni molte meta-analisi si sono focalizzate sul cercare di capire se la depressione rappresenti un fattore predisponente per lo sviluppo di una patologia neurodegenerativa oppure se sia parte dell’espressione dell’atrofia cerebrale già in atto, in altre parole un prodromo della demenza. A sostegno della prima interpretazione bisogna tener presente che la depressione è una patologia caratterizzata da uno squilibrio neurotrasmettitoriale, un “timbro” neurobiologico, ben specifico. Senza entrare nel merito, ai fini della discussione ci basterà considerare che il sistema della risposta allo stress è estremamente attivo nei soggetti depressi. Come sottolinea Robert Sapolsky nel suo bestseller “Perché alle zebre non viene l’ulcera?”, nonostante questi pazienti appaiano sfiniti e privi di energie in verità il loro sistema di allarme è costantemente attivato. Il loro stato può essere assimilato a quello di una zebra che corre nella savana per fuggire ad un predatore, con l’unica differenza che questi pazienti “sfuggono da loro stessi”, ovvero dalle loro distorsioni cognitive. L’elevata produzione di glucocorticoidi nel surrene (principalmente cortisolo e corticosterone) predisporrebbe ad un decadimento cognitivo sia elicitando un effetto citotossico su alcune strutture cerebrali particolarmente suscettibili ad essi come l’ippocampo, sia favorendo processi infiammatori a carico del sistema cerebrovascolare (l’infiammazione è di fatto uno dei maggiori fattori di rischio per la demenza).
Seguendo questo ragionamento potremmo azzardare l’ipotesi che la depressione rappresenti un fattore di rischio soprattutto per una demenza vascolare, e infatti sembrerebbe proprio così. Studi epidemiologici hanno trovato una correlazione positiva tra la durata dell’intervallo fra l’esordio della depressione e quello della demenza: una depressione prima dei 60 anni raddoppia il rischio di sviluppare una demenza vascolare. Il progetto Maastricht AgingStudy, avviato negli anni Novanta per studiare l’influenza dell’età sul funzionamento cognitivo, ha riscontrato che la presenza di sintomi depressivi predice lo sviluppo di demenza vascolare, ma non dell’Alzheimer (pur incidendo sul funzionamento cognitivo globale, calcolato con il Mini-Mental State Examination, MMSE). Inoltre, uno studio retrospettivo di Barnes e colleghi (2012) dimostra che solo una depressione cronica, a esordio giovanile può essere associata ad un aumentato rischio di demenza vascolare, mentre una depressione a esordio tardivo (primo episodio dopo i 60 anni) si configura maggiormente come una fase prodromica della demenza di Alzheimer, piuttosto che come fattore di rischio.
In conclusione, la depressione potrebbe concorrere al processo degenerativo tramite differenti meccanismi fisio-patologici, ma potrebbe anche essere dettata dal processo neurodegenerativo in atto, laddove questo processo interessa strutture implicate nella regolazione del tono dell'umore; inoltre, bisogna considerare un aspetto che concerne l’ambito sociale: l’isolamento sociale che spesso si accompagna a questa patologia, riduce notevolmente la qualità della vita quotidiana ed ha come conseguenza diretta una riduzione della neurogenesi. Sicuramente, una buona parte dei pazienti geriatrici sviluppano dei sintomi depressivi in risposta all’emergere dei deficit cognitivi.
Un’adeguata attenzione a questi aspetti, facendo uso di interventi psico-sociali, trattamenti psicoterapici, farmacologici o trattamenti basati sulla reminiscenza potrebbero essereun efficace strumento di prevenzione non soltanto per i disturbi dell’umore, ma soprattutto per il decadimento cognitivo.
Fonti:
- https://www.abcdepressione.it/news-3
- Sapolsky R.M. (2014). “Perché alle zebre non viene l’ulcera?”.Roma: CastelvecchiEditore.
- Jolles J, van Boxtel MP, Ponds RW, Metsemakers JF, Houx PJ. De Maastricht aging study (MAAS). Het longitudinaalperspectief van cognitieveveroudering [The Maastricht aging study (MAAS). The longitudinal perspective of cognitive aging]. TijdschrGerontolGeriatr. 1998 Jun;29(3):120-9. Dutch. PMID: 9675779.
- Barnes DE, Yaffe K, Byers AL, McCormick M, Schaefer C, Whitmer RA. Midlife vs late-life depressive symptoms and risk of dementia: differential effects for Alzheimer disease and vascular dementia. Arch Gen Psychiatry. 2012 May;69(5):493-8. doi: 10.1001/archgenpsychiatry.2011.1481.
Articolo a cura del Dott. Silvio Pellegrini
Laureato in Neuroscienze e Riabilitazione Neuropsicologica
silvio.pellegrini@studio.unibo.it