
Quando una persona soffre di un disturbo, o meglio, quando una persona soffre di demenza, si tende generalmente a identificarla con la sua stessa malattia. Letizia non è più un insegnante, Andrea non è più una madre, Filippo non è più un cuoco, Massimo non è più un amico. I sintomi predominano sul resto: Letizia è perdita di memoria, Andrea è difficoltà nel linguaggio, Filippo è confusione, Massimo è aggressività. Tale annichilimento annienta l’identità della persona, la riduce ad un minimo che allontana ogni possibilità di inclusione e dunque, di benessere.
Considerando la persona nella sua interezza, della quale fanno parte sia una componente relazionale che cognitiva, si comprende che la persona con demenza non ha perduto quegli aspetti fondamentali dell’essere umano che comportano bisogni ed emozioni. La relazione con l’Altro, dunque, può avere impatti positivi e negativi, a seconda che sia di sostegno o di annientamento al benessere.
A tal proposito, Kitwood (1997) sostiene che i bisogni essenziali di una persona con un deterioramento cognitivo siano cinque, uniti da un perno centrale quale l’amore. Il conforto, primo bisogno, si alimenta con la tenerezza, il calore, lenitivi di ansia e paura. L’attaccamento, secondo bisogno, è essenziale in questa condizione di estrema fragilità. Vivere legami significativi mitiga l’incertezza. Il terzo bisogno è l’inclusione, soddisfatto attraverso la partecipazione, l’appartenenza ad un gruppo. In assenza di esso la persona con demenza potrebbe regredire più velocemente. L’occupazione, quarto bisogno, si soddisfa quando la persona con demenza ha la possibilità di sentirsi impegnato in un progetto da portare a termine. Infine l’identità, la possibilità di percepire un senso di continuità tra il presente ed il passato. Dipendendo quasi completamente dalla percezione che l’Altro ha su di noi, essenziale ai fini identitari è il ruolo ed il rapporto con gli altri nella propria vita.
Lo scorso anno Simone Godano ha diretto un film intitolato “Marilyn ha gli occhi neri” che vede protagonisti Stefano Accorsi e Miriam Leone nei panni di Diego e Clara, nevrotico e mitomane facenti parte di un centro diurno di riabilitazione per persone con disturbi mentali. Lo scopo è quello di narrare i disturbi mentali in un’ottica di leggerezza, accorciando le distanze, figlie di inutili pregiudizi e dimostrando quanto sia benefica l’integrazione e l’inclusione, il coinvolgimento in un progetto comune. Da un dialogo fra Diego e Clara: “È che alle persone non gliene frega niente e uno poi resta solo, ma proprio solo, io lo so. Come dicevi tu oggi, che se uno sta male, la gente ha paura… è così. […] È brutto non essere visti.” In questo film il pazzo si tramuta in saggio, la sregolatezza segue via via il genio. Infatti, l’iniziativa di Clara è proprio quella di coinvolgere tutti gli utenti nell’apertura di un ristorante interamente gestito da loro, dove nonostante ovvie difficoltà, è evidente il beneficio dell’inclusione e dell’occupazione.
Una situazione simile, con la differenza di possedere i connotati della realtà, nasce a Tokyo dove Shiro Oguni fonda il “Ristorante degli Ordini Sbagliati”. Questa attività coinvolge solo camerieri che soffrono di demenza, il cliente è consapevole del rischio e accetta l’idea di ricevere l’ordinazione sbagliata e mangiare un piatto che non corrisponde alle sue aspettative. Nonostante il 37% delle ordinazioni non corrisponda a quanto ordinato, il 99% dei clienti si dichiara soddisfatto, apprezzando anche la presenza di una pianista affetta da demenza che, accompagnata dal marito al violoncello, tende ad interrompersi e poi riprendere pazientemente, stimolando un clima empatico fra sé stessa e gli spettatori. Secondo il fondatore, la demenza in Giappone è misconosciuta e i malati vengono emarginati, dunque l’obiettivo è quello di sfidare una società che non ammette l’errore e dimostrare che è possibile vivere insieme in un clima armonioso.
Altri esempi di progetti dedicati all’inclusione di persone aventi tali fragilità, di solito coinvolgono luoghi in cui è possibile entrare in contatto con l’arte, come i musei, dove attraverso tecniche narrative che promuovono l’accessibilità culturale è possibile facilitare la comprensione delle esposizioni e coinvolgere maggiormente i visitatori, rispetto alle strategie descrittive o esplicative. Tra le forme di narrazione museale, si sta verificando la narrazione digitale: si tratta di brevi narrazioni costituite da immagini e testi, voce, suoni, nelle quali la narrativa tradizionale si amalgama alle potenzialità del digitale, ciò permette al racconto di acquisire caratteri di valore sociale, democratico e trasformativo, efficace anche con soggetti vulnerabili o marginalizzati. la narrazione digitale è capace di impegnare varie forme di intelligenza, inclusa quella emozionale e sociale. Esistono numerose sperimentazioni di successo, nei musei d’arte e scientifici del mondo, che stimolano ad ampliarne l’uso e ad esplorarne le numerose potenzialità.
In conclusione, si evidenzia l'efficacia di tali strategie inclusive in coloro che soffrono di tali fragilità, poiché il ritrovarsi parte di un gruppo piuttosto che il sentirsi partecipi e occupati in un progetto comune, favorisce la percezione di autoefficacia, riducendo la progressiva perdita di social skills, dimostrando quanto la possibilità di sentirsi coinvolti in un processo, sia molto più importante della validità del risultato.
Fonti:
https://scientificult.it/2021/01/10/demenza-persone-dietro-la-malattia/
https://www.comingsoon.it/film/marilyn-ha-gli-occhi-neri/59712/recensione/
https://www.spazio50.org/il-ristorante-degli-ordini-sbagliati-esempio-di-inclusione/#:~:text=A%20Tokyo%20c'%C3%A8%20il,sono%20appunto%20malati%20di%20demenza
http://www.anms.it/upload/rivistefiles/d7b6f4ad033525a1bf6283a4b7beeaf9.pdf#page=114
A cura della Dott.ssa Valeria Bovalino
Laureata in Psicologia Clinica e della Salute
bovalinovaleria@gmail.com