“Essere donna è così affascinante.
È un'avventura che richiede tale coraggio, una sfida che non annoia mai.
Avrai tante cose da intraprendere se nascerai donna.
Per incominciare, avrai da batterti per sostenere che se Dio esiste potrebbe anche essere una vecchia coi capelli bianchi o una bella ragazza.
Poi avrai da batterti per spiegare che il peccato non nacque il giorno in cui Eva colse la mela: quel giorno nacque una splendida virtù chiamata disubbidienza.
Infine avrai da batterti per dimostrare che dentro il tuo corpo liscio e rotondo c'è un'intelligenza che chiede d'essere ascoltata.”
(Oriana Fallaci)
La violenza contro le donne è oggi una delle più estese violazioni dei diritti umani, poiché costituisce il principale ostacolo al raggiungimento della parità dei sessi, del godimento dei diritti fondamentali, nonché dell’integrità fisica e psichica. Il problema della violenza contro le donne pone le sue radici nella storica diseguaglianza tra l’uomo e la donna, nella sua subordinazione all’uomo e nell’ineguale distribuzione di potere.

La domanda che sorge spontanea, però, è: quali sono i fattori che pongono la donna in questa condizione di inferiorità?
Secondo la psicologia sociale, la formazione stessa delle categorie sociali o di gruppi porta inevitabilmente alla formazione di stereotipi, pregiudizi e discriminazioni (Tajfel, 1981).
Una forma estrema di pregiudizio è la Deumanizzazione, che consiste nella negazione dell'umanità dell’altro. Questo processo è alla base di molti crimini contro l’umanità come gli stermini o i genocidi ma i casi più evidenti di deumanizzazione sono quelli messi in atto contro le donne o altre categorie sociali come le persone omosessuali o transessuali (Volpato, 2011).
L’oggettivazione della donna è una particolare forma di deumanizzazione, che consiste nel ridurre allo stato di oggetto sessuale non umano l’altra persona. In questo caso, il valore personale delle donne è apertamente ridotto al loro corpo e sono considerate e trattate come oggetti, come qualcosa da cui gli uomini si sentono autorizzati a trarre vantaggio per il proprio piacere sessuale.
E' dunque lecito chiedersi, come fanno gli abusanti ad avere questo potere sulle loro vittime e perché queste non sono in grado di liberarsi da queste relazioni disfunzionali?
A quanto pare, l’uomo/abusante, per mantenere il suo controllo sulla donna, mette in atto delle tattiche di persuasione tali da far credere alla vittima che da sola non sia in grado di fare nulla, che è un’inetta. Tutto viene deciso dall’uomo/abusante. Anche a livello economico, se la donna non lavora, è lui a provvedere al sostentamento della coppia/famiglia ed il più delle volte quello che darà alla moglie sarà irrilevante per il sostentamento e quindi la donna verrà reputata incapace e si sentirà tale.
Non è facile per una donna uscire dal ciclo della violenza. Spesso, le donne hanno un legame talmente forte con il loro abusante che per quanto vogliano denunciare ed, il più delle volte finiscono col rimanere accanto al proprio carnefice. Ciò può avvenire perché la donna cerca di sminuire la situazione, pensando di poterla risolvere da sole oppure per la oppure per la "semplice" paura del proprio compagno, che possa scoprirle o venire a conoscenza della loro richiesta d'aiuto, rischiando, dunque, di intensificare i maltrattamenti. E la situazione peggiora per la donna quando ci sono di mezzo dei bambini piccoli, poiché hanno paura che allertando i servizi sociali possano perdere l’affidamento dei figli.
Altre ancora, invece, sono scoraggiate dalle attuali leggi che non garantiscono loro una protezione adeguata in caso di denuncia per violenza. Infatti, l’uomo spesso viene posto agli arresti domiciliari in coabitazione con la vittima dove può continuare a perpetuare le violenze senza ripercussioni.
Cosa può fare, dunque, lo Stato per aiutare queste donne?
A mio avviso, sarebbe opportuno aumentare la sensibilità sociale in merito a questa problematica, ad esempio attraverso l'informazione e la sensibilizzazione rispetto all'uguaglianza e la parità di genere, e le tutele economiche che lo stato deve poter prevedere, facendo in modo che gli operatori dei servizi sanitari, sociali e delle forze dell’ordine siano adeguatamente formati, affinché queste donne siano accolte senza essere giudicate.
Il ruolo dello psicologo, in questi casi, è quello di infondere in queste donne una speranza di cambiamento, dare la giusta motivazione ad uscire dalla violenza e far comprendere che non sono esse stesse causa della violenza che subiscono. Sono vittime, ma non sono deboli, in quanto tali non possono e non devono essere trattate superficialmente ma devono essere accompagnate sia legalmente che psicologicamente in un percorso sano di autonomia facendo capire loro che c’è sempre una via d’uscita, e mettendoli in contatto con il proprio senso di autoefficacia e di forza interiore.
Bibliografia:
Baldry (2015). She’s not a person . . . she’s just a woman!
Volpato C. (2011). Deumanizzazione. Come si legittima la violenza.