
Con l’aumento dell’aspettativa di vita, l’età media della popolazione cresce di conseguenza. Per questo motivo, prendersi cura degli anziani può risultare faticoso, soprattutto se consideriamo le malattie neurodegenerative sempre più diffuse, la cui irreversibilità le rende davvero difficili da sostenere. Non c’è dubbio che questo tipo di malattie abbiano un peso, fisiologico ma anche psicologico, non trascurabile per chi ne soffre; tuttavia, spesso ci dimentichiamo di quelle persone che vivono questa situazione dall’esterno e che, nonostante tutto, si fanno carico della cura del proprio familiare.
Il termine peso del caregiver è utilizzato per descrivere il fenomeno che vede, appunto, i caregiver (informali e formali) quasi schiacciati dal peso della malattia, la quale causa stress e difficoltà emotive e psicologiche. In questo caso, ci soffermeremo sul peso sperimentato dai caregiver ‘informali’, come un parente, un amico o una persona vicina al paziente, i quali si ritrovano a dover affrontare una situazione davvero complessa. Questi caregiver, seppur non dispongano delle competenze professionali adatte, sono delle figure fondamentali per la vita dell’assistito, non solo per il forte legame emotivo che c’è tra di loro, ma perché sono spesso gli unici a poter garantire il soddisfacimento dei bisogni del paziente. Data la mancanza di competenze professionali, il carico emotivo, e spesso fisico, che devono affrontare diventa insostenibile.
Il caregiver’s burden, infatti, porta con sé una serie di sintomi che sono molto simili a quelli del burnout lavorativo: senso crescente di stanchezza e di esaurimento emotivo, con conseguente abbassamento delle difese immunitarie, sviluppo dei sintomi psichici come ansia e depressione, disturbi del sonno, disturbi gastro-intestinali e un generale peggioramento della vita. Nonostante questa pletora di sintomi, il caregiver può anche sperimentare dei sensi di colpa, spesso causati dal profondo dispiacere che provano nei confronti del proprio parente. Nel quadro complesso della malattia, possiamo definire il caregiver come una ‘vittima secondaria’, che lentamente sta portando via la persona cara. Una conseguenza ulteriore di questo peso, può essere una compromissione della capacità di accudire il proprio caro, cosa che si trasforma in un circolo vizioso in cui lo stress aumenta esponenzialmente.
Ma come possono i caregiver far fronte a questa situazione così disagiante? I metodi sono diversi ma in questo articolo ci concentreremo sulla terapia conosciuta come ACT therapy.
Questa terapia, in cui ACT sta per Acceptance and Commitment Therapy, è una forma di psicoterapia cognitivo-comportamentale. Emersa nel corso degli ultimi due decenni, inserendola così nelle terapie della Terza Generazione, ha avuto un seguito molto positivo, confermandone così l’efficacia. L’obiettivo principale di questo approccio è quello di incoraggiare gli individui a rispondere alle avversità in maniera costruttiva, analizzando e accettando i propri processi cognitivi e i sentimenti ad essi legati, al posto di reprimerli e alimentare il senso di colpa. L’ACT incoraggia le persone ad accettare i trascorsi di vita con tutte le sfaccettature affettive che comportano, positive o negative, imparando a concentrarsi sulle reazioni che esse causano per trasformarle in risposte funzionali. Un elemento fondamentale dell’ACT è la distinzione tra dolore sporco e dolore pulito; il dolore pulito ha a che fare con un tipo di sofferenza legata ad eventuali situazioni inevitabili, come una malattia o un lutto; il dolore sporco, invece, nasce dalla repressione e negazione continua dei propri sentimenti.
La terapia ACT si compone di 6 pilastri fondamentali:
- Accettazione: include un’accoglienza attiva e cosciente di tutti i trascorsi del caregiver, senza il tentativo di cambiarli.
- Diffusione cognitiva: cambiare il modo in cui una persona interpreta i propri sentimenti e pensieri, dandogli una valenza diversa, se non positiva allora neutra.
- Essere presenti: l’ACT promuove un contatto costante e non-giudicante con gli eventi che accadono intorno all’individuo. Non bisogna evitarli ma viverli nel qui ed ora.
- Sé concettualizzato: definito come un insieme di “fusioni” di definizioni di noi stessi che la mente di ognuno di noi ci racconta. Spesso, nel caso dei pazienti affetti da una malattia, il proprio Io perde di forza, finendo con l’essere semplicemente un’etichetta, il “malato”.
- Valori: ciò che motiva le persone al cambiamento, ad affrontare momenti difficili. Spesso sono proprio questi valori che spingono le persone ad agire per provare a far fronte a situazioni disagianti.
- Azione impegnata: fa riferimento all’agire, appunto, verso il raggiungimento di un obiettivo valutato e ragionato.
Vivere appieno le proprie emozioni è un processo essenziale, anche se talvolta doloroso. La terapia ACT sottolinea proprio l'importanza di non sottrarsi alle esperienze difficili, ma di affrontarle con apertura e consapevolezza. Ad esempio, nel contesto della demenza, assistere alla progressiva perdita di memoria di un proprio caro può essere straziante: vedere il genitore o il coniuge dimenticare il proprio nome, o confondere i volti familiari, è un'esperienza che può lasciare un segno profondo. Allo stesso tempo, è comprensibile che il caregiver possa avere reazioni di frustrazione o impazienza di fronte a comportamenti inusuali, e poi sentirsi in colpa per aver perso la calma. Tuttavia, anziché rimuginare su queste emozioni e alimentare il senso di colpa, è importante imparare a riconoscerle, accettarle e affrontarle con gentilezza verso se stessi.
Il percorso di accettazione non significa giustificare la sofferenza o ignorare il dolore, ma renderlo più tollerabile, imparando a gestirlo in modo costruttivo. Il caregiver può sentirsi impotente di fronte alla malattia e agli inevitabili cambiamenti che comporta, ma la chiave sta nel modificare il proprio approccio: anziché combattere contro ciò che non si può cambiare, è utile concentrarsi su ciò che è possibile fare per migliorare la propria condizione emotiva.
Oltre alla terapia individuale, può essere estremamente utile partecipare a incontri di gruppo con altri caregiver. Condividere esperienze, ascoltare le difficoltà altrui e sentirsi compresi aiuta a ridurre la sensazione di isolamento che spesso accompagna chi si prende cura di una persona malata. Il supporto reciproco può diventare una risorsa preziosa, offrendo nuovi spunti per affrontare le difficoltà e ricordando che non si è soli in questo percorso.
Infine, è fondamentale che il caregiver impari a riconoscere i propri limiti e ad accettarli senza vergogna o senso di inadeguatezza. Non si tratta di difetti, ma di aspetti naturali della propria umanità. Nessuno può affrontare tutto da solo, e chiedere aiuto non è un segno di debolezza, bensì un atto di saggezza e consapevolezza. Prendersi cura di sé stessi, infatti, è il primo passo per poter offrire un supporto autentico e amorevole a chi si ama.
La felicità più grande consiste nell’accettare i nostri limiti e amarli.
Dott.ssa Elisa Conte
Laureata in Scienze e Tecniche Psicologiche
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