Un incontro. un'esperienza di vita e dell'anima. Una riflessione che ha acceso una luce nella mia coscienza e che ora condivido.
È domenica 6 ottobre, circa a metà della mattinata. Mi trovo nei pressi dello stand che mi era stato affidato in qualità di volontario, nell’ambito del Festival Imago Mentis. A un certo punto, passano due persone dal viso conosciuto: mi riconoscono, ci salutiamo e da lì cominciamo a conversare. La giornata, del resto, era propizia per una passeggiata e il clima tiepido che si percepiva sotto la luce del sole favoriva la distensione dei muscoli e parimenti dell’umore, sicché tutte le tensioni ostili al chiacchierare erano sciolte sotto quel tepore. Parlavamo con spontaneità e naturalezza. Cosa non scontata, quando uno degli interlocutori è affetto da Alzheimer.
Mi rivolgo, d’un tratto, all’altra persona, perché questo incontro mi aveva fatto tornare alla mente un messaggio Whatsapp di mio padre, di alcuni giorni prima; un link, per la precisione, che rimandava a un articolo scientifico. Parlava di un nuovo farmaco progettato in un laboratorio britannico, un inibitore peptidico sviluppato grazie alla biologia computazionale che riesce a sferrare un doppio attacco alla proteina Tau, colpendola nei due punti chiave per la formazione dei grovigli che soffocano i neuroni. Ne faccio menzione a questa persona, la quale mi interrompe subito stizzita:” Sì, sì…ne esce uno al giorno di questi articoli mirabolanti. Poi vai a vedere, dicono ‘siamo al primo stadio, tra 10 anni potremo testarlo sugli uomini, tra 15 potrebbe essere già sul mercato’. Ti illudono soltanto”.
Non ho avuto il coraggio di rispondere, d’altro canto confesso che non avevo letto fino in fondo il testo dell’articolo, quindi mi ero arreso, aderendo passivamente a quella triste ma realista prospettiva. Tuttavia, essa mi è stata da stimolo per riflettere più approfonditamente intorno al concetto di speranza. Ho pensato come questa venga sempre confinata nell’alveo dell’irrazionalità, un sentimento tra i sentimenti che spesso, troppo spesso, per non dire quasi sempre, va a scontrarsi con la ragione, l’unica facoltà umana a cui pare la realtà possa improntarsi. Eppure, nonostante ciò, ho ritenuto che della speranza nessuno possa fare a meno, perché ammesso e non concesso che si scontri con le più autentiche esigenze di realismo, essa ci appartiene e ci caratterizza non meno della stessa ragione che sembrerebbe opporvisi così pugnacemente.
In mezzo a questa riflessione, la prima cosa che mi è balzata alla mente è stata la concezione religiosa della speranza. Il pensiero cristiano, infatti, la annovera nientemeno che tra le virtù teologali. Sono andato a risfogliare le pagine del pastore evangelico Jurgen Moltmann, che intitolò non a caso “Teologia della speranza” uno dei suoi maggiori saggi. L’ho fatto con uno spirito non troppo entusiastico, perché guardare alla speranza dal punto di vista della fede, ho pensato, rappresentava una forma di avallo di quel confinamento nell’irrazionale di questo sentimento così importante. Eppure, sono rimasto stupito: il testo era imperniato attorno a un dialogo con Ernst Bloch. Questi era un filosofo neomarxista che aveva visto, nella teoria comunista, la realizzazione della docta spes, la speranza erudita, quella che si realizza qui ed ora nella più assoluta immanenza, in aperta contraddizione con quella dei credenti, totalmente trascendente, rivolta a un futuro che si colloca al di fuori del mondo: all’aldilà, semplicemente.
Non vuole questa essere la sede di una disquisizione filosofica, però tanto mi è bastato a prendere atto della seguente intuizione: se la speranza va bene a cristiani e marxisti, benché declinata filosoficamente in termini differenti, una cosa è certa, cioè che dal punto di vista psicologico essa si manifesta come bene universale, in quanto fatto umano. Solo, esclusivamente ed inesorabilmente umano. Il suo rapporto con la ragione dev’essere lo stesso di tutti gli altri sentimenti ed emozioni. Dialogo, conflitto e infine sintesi. La prima, la razionalità, dev’essere la base attraverso la quale quelli possano spiccare il volo. Non deve castrarli, non deve impedirli, ma semplicemente aggiustarne di volta in volta la traiettoria. La speranza si lega a doppio filo all’ottimismo, a una visione positiva del futuro. L’ottimismo non fa prognosi, non esiste in base alle probabilità, alle statistiche, bensì esiste da per sé, a priori. È l’aderire sempre e comunque a quella anche minuscola parte di bene che residua.
Volendo applicare questi principi alla medicina, la speranza si presenta non già come una cura da sottoporre al paziente, bensì come un presupposto della stessa cura. La speranza permette di vedere ogni male da cui siamo attanagliati sempre e comunque come una fase transitoria, poiché tiene saldo l’obiettivo verso cui tendiamo. Per rendere più credibile questo concetto, evidenzierei come la speranza non sia meno viva nelle persone sane: non è quella della guarigione, ma nel fatto di non ammalarsi. È una speranza muta, latente, ma forte più che mai. Del resto, il fatto che qualcosa non sia nei nostri pensieri non significa che non esista. Ogni evento avverso, ribadisco, va vissuto con lo spirito del cambiamento verso tempi migliori. L’affrontare i problemi senza lasciarsi vincere da loro avviene inevitabilmente attraverso la speranza; l’alternativa, piaccia o meno, è solo la resa.
Non ho saputo dire tutto questo al mio interlocutore, ma sono tornato sull’articolo scientifico e, stavolta, ne ho ultimato la lettura. Non erano menzionati i nefasti 10 o 15 anni, ma si parlava di una fase sì iniziale, ma dagli “sviluppi sorprendenti” in termini di risposte ai test.
“La ricerca sconfiggerà la demenza” tuona con grande sicumera il rappresentante della charity britannica che ha condotto gli esperimenti. Possiamo solo sperare.
Art. a cura di Gianluca Marrone
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